L’Egitto è il paese dell’Africa mediterranea maggiormente colpito, in termini numerici, dalla pandemia da Covid-19. Il Cairo (alla data dell’8 giugno) registra 34.079 casi di contagio con 1.237 decessi, sebbene forti dubbi permangano sull’attendibilità di tali dati, soprattutto alla luce della repressione del dissenso attuata dalle autorità egiziane, attente a impedire critiche in merito alla gestione della pandemia, che non permette di escludere una maggiore diffusione del virus.
Al di là del dato sanitario, il paese deve naturalmente fare i conti con l’impatto della crisi economica innescata dal Covid-19, le cui conseguenze ricadono soprattutto sul settore turistico, responsabile, nel 2019, del 12% del Pil egiziano. Inoltre, l’economia egiziana soffre in ragione della propria interdipendenza con il resto del mondo, sia alla luce dei minori introiti derivanti dal passaggio delle merci nel canale di Suez, sia per la contrazione delle rimesse provenienti dai lavoratori egiziani residenti all’estero (in particolare nei paesi del Golfo, alle prese con lo shock derivante dal crollo del prezzo del petrolio), una voce che vale circa il 10% del Pil egiziano.
Per far fronte a tali problematiche, il governo egiziano ha deciso di sospendere per il momento alcuni dei maggiori progetti infrastrutturali in programma, su tutti la costruzione della nuova capitale amministrativa del paese, fondamentale per decongestionare Il Cairo, dove vive oramai un quinto della popolazione egiziana, pari a circa 20 milioni di persone. L’amministrazione cairota ha d’altronde necessità di destinare la maggior parte dei fondi a disposizione per spese relative al welfare, al fine di attenuare le tensioni sociali che si sono acuite a seguito della diffusione del coronavirus. D’altro canto, l’esplosione delle tensioni sociali in un paese ancora diviso dagli strascichi del doppio regime change del 2011 (primavera araba e fine della trentennale presidenza di Hosni Mubarak) e del 2013 (deposizione di Mohamed Morsi), potrebbe mettere a forte rischio la stessa tenuta del governo di Al-Sisi.
Nonostante i tagli alla spesa, il governo egiziano ha però deciso di continuare con i lavori per il completamento della prima centrale nucleare del paese (e seconda dell’intero continente, dopo quella di Koeberg in Sudafrica). Qualora ultimato, il sito in costruzione ad El-Dabaa, sulla costa mediterranea a circa 170 chilometri da Alessandria, rappresenterebbe la realizzazione dell’ultra sessantennale programma nucleare del paese nordafricano.
Durante la Guerra fredda, di fatti, l’Egitto provò a dotarsi della tecnologia nucleare con il supporto dell’Unione Sovietica. A seguito della sconfitta nella Guerra dei 6 giorni con Israele (1967) e la successiva perdita del controllo sui giacimenti petroliferi del Sinai e sul canale di Suez, il Cairo dovette però abbandonare il progetto, non riuscendo a sostenere i costi economici e politici di tale sforzo. Un anno più tardi, il paese aderì al Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) del 1968, rifiutandosi però inizialmente di ratificarlo, a seguito dello sviluppo di progetti nucleari da parte di Israele e della conseguente mancata ratifica da parte di Tel Aviv. La normalizzazione dei rapporti tra i due paesi (1979) portò successivamente alla ratifica egiziana del Tnp nel 1981.
Con la fine della Guerra fredda il paese riattivò il proprio progetto nucleare. Nel 1992 venne istallato l’Etrr-2 (Experimental training research reactor number two), un reattore per la ricerca nucleare fornito dall’azienda argentina Investigacion Aplicada (Invap) che andava a sostituire l’Etrr-1 di provenienza sovietica e operativo nel paese dal 1958. I piani per la costruzione di una vera e propria centrale nucleare sono stati però intensificati negli ultimi 15 anni. Trait d’union tra la Guerra fredda e il nuovo millennio è senz’altro la collaborazione di Mosca nello sviluppo della tecnologia atomica cairota. Nel 2008, di fatti, Russia ed Egitto hanno firmato un accordo di cooperazione sull’uso pacifico dell’energia nucleare, seguito nel 2015 dall’intesa per la costruzione della centrale di El-Dabaa e nel dicembre 2017 dall’avvio dei lavori. Responsabile della produzione dei 4 reattori (da 1.200 MW ciascuno) del sito di El-Dabaa è la Russian State Atomic Energy Corporation (Rosatom), attiva nello sviluppo dell’energia nucleare in diversi paesi del mondo. Qualora i lavori rispettassero le tempistiche previste, il primo reattore di El-Dabaa dovrebbe essere operativo entro il 2026, mentre i restanti entro fine decennio. Il progetto, i cui costi totali sono stimati in circa 30 miliardi di dollari, è coperto da un prestito russo per l’85%.
La scelta di proseguire nella costruzione del sito nucleare, nonostante le problematiche economiche derivanti dal Covid-19, è sintomatica dell’urgenza con la quale Il Cairo affronta la partita della diversificazione energetica. L’Egitto è il primo paese non Opec dell’Africa in quanto a produzione petrolifera e il terzo maggiore produttore di gas nel continente dopo Angola e Nigeria, ma anche il maggiore consumatore africano di idrocarburi (22% del petrolio e 37% del gas del continente). Il Cairo è perciò importatore netto di idrocarburi, a differenza di altri paesi della regione quali l’Algeria e le monarchie del Golfo, i cui bilanci statali e la bilancia commerciale sono estremamente dipendenti dall’export di petrolio e gas. Alla base delle politiche di transizione energetica egiziana, dunque, non vi è il classico schema di transizione da un’economia dipendente dalla redistribuzione dei profitti degli idrocarburi verso una maggiormente diversificata, bensì la necessità di far fronte al costante aumento della domanda interna di energia, correlata principalmente al tasso di crescita della popolazione (2% annuo, ossia oltre 2 milioni di persone in più nel 2020) e urbanizzazione.
In assenza di una transizione verso altre forme di produzione energetica, la crescente domanda interna rischia perciò di non essere soddisfatta, se non tramite un ulteriore assottigliamento dell’export di idrocarburi, con ovvie ricadute sull’afflusso di moneta estera e sulla sostenibilità energetica (e ambientale) nel medio periodo. Per questa ragione il paese sta cercando di implementare una diversificazione energetica a 360 gradi, che non passi solamente dal nucleare, ma anche da altre fonti rinnovabili e pulite (idroelettrica, solare ed eolica). Il governo egiziano ha pubblicato nel 2015 l’ultima strategia nazionale per le energie rinnovabili (The 2035 Integrated Sustainable Energy Strategy), all’interno della quale viene fissato l’obiettivo di generare il 20% del fabbisogno di elettricità da fonti pulite entro il 2022 (contro il 9% del 2014), fino ad arrivare al 42% nel 2035. Nel dettaglio, l’energia idroelettrica è quella al momento maggiormente sfruttata in considerazione dell’importanza del Nilo nell’economia del paese. Allo stesso tempo, la disputa con l’Etiopia per la costruzione della diga GERD, e in generale la minore disponibilità di acqua nei prossimi anni, per via del combinato disposto tra cambiamento climatico, incremento demografico e urbanizzazione, alimentano alcune problematiche sulla sostenibilità futura di tale tecnologia. D’altro canto, esistono enormi margini nello sviluppo del settore eolico (in particolare con il sito di Jabal Al-Zayt) e solare (vedasi il Benban Solar Park, il più grande sito solare africano, da poco ultimato).
Sebbene quindi il programma nucleare non rappresenti l’unica strada a disposizione per la diversificazione energetica del Cairo, lo sviluppo di questa tecnologia è considerato prioritario sulla base di considerazioni che vanno oltre la mera necessità di aumentare la percentuale di rinnovabili nel mix energetico del paese.
In primis, la volontà di dotarsi della tecnologia nucleare può esser letta sotto la lente della sicurezza nazionale. Sebbene l’Egitto non abbia ancora sottoscritto il protocollo addizionale (Cfa – Comprehensive Safeguards Agreement) dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea), che ne autorizza ispezioni al fine di verificare lo scopo esclusivamente civile della produzione nucleare, il paese non ha mai espressamente dichiarato di voler arricchire autonomamente l’uranio (che verrà importato dalla Russia) e da decenni mantiene una posizione diplomatica favorevole al nucleare in Medio Oriente, ma nei limiti dei dettati del Trattato di non proliferazione. Inoltre l’Egitto, nonostante le solide relazioni diplomatiche ed economiche con Arabia Saudita e Israele, ha da sempre mantenuto una posizione più sfumata nei confronti del programma (civile) iraniano, il cui sviluppo non viene percepito come una minaccia diretta per la sicurezza del paese. Il Cairo non sembra dunque intenzionato a sviluppare l’arma atomica, ma la sola presenza della tecnologia civile rappresenta una forma di deterrente per via della possibilità di una riconversione futura a scopi bellici.
Infine, dietro l’adozione di una capacità di produzione nucleare autonoma, vi sono motivazioni di prestigio nazionale e personale per il governo Al-Sisi, il quale potrebbe così intestarsi una storica vittoria nel lungo processo di modernizzazione del paese. Inoltre l’Egitto, che dalla fine della Seconda guerra mondiale si auto-percepisce come leader del mondo arabo, non vuole arrivare troppo in ritardo nella corsa all’adozione di energia nucleare nella regione, resa ancora più urgente dal completamento della centrale di Barakah, negli Emirati Arabi Uniti, e dagli sviluppi del programma saudita.
Simone Acquaviva